RECENSIONI: Stefano Bartolini “Manifesto per la felicità”: Società del ben-avere V.S Società del ben-essere.

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“ Molti psicologi e psichiatri rifiutano l’idea che la società nel suo insieme potrebbe essere malata. Assumono che il problema della salute mentale in una società è solo quello degli individui “inadeguati” e non quello di una possibile inadeguatezza della cultura stessa” .

(Erich Fromm)

Mai citazione fu più azzeccata per l’incipit del  libro che proponiamo alla vostra attenzione,  di ritorno dalla lunga pausa estiva.

Stefano Bartolini è docente di economia politica e sociale presso la facoltà di economia “Richard M. Goodwin” dell’Università di Siena e ha pubblicato numerosi saggi e articoli sulle più prestigiose riviste internazionali. Fin dalle prime pagine notiamo  una capacità di esposizione chiara, semplice e avvincente. Con un linguaggio scevro da tecnicismi anche il lettore digiuno di economia e sociologia può addentrarsi , senza troppe difficoltà, negli assunti principali di questo saggio.

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La nostra società è profondamente malata poiché plasmata su assiomi culturali divenuti ormai bulimici e, nella maggioranza dei casi, errati. Le idee classiche di “sviluppo”, “crescita”, “consumo” e “Pil” , fino a questi anni seguite ciecamente, alla stregua di dogmi inviolabili, dall’establishment economico finanziario mondiale, hanno proiettato l’essere umano verso una corsa sfrenata alla produzione e accumulo di ricchezze, verso un’idea di lavoro alienante, drammaticamente distante da quelli che sono i nostri reali e sostanziali bisogni. I risultati di questa drammatica scelta sono sotto gli occhi di tutti, ogni giorno: aumento delle patologie depressive, alcolismo, consumo di droghe, malessere sociale, violenza , infelicità diffusa, crollo delle relazioni.  Negli ultimi anni la possibilità di misurare in modo scientifico ed affidabile il tasso di felicità di una nazione ha svelato il grande inganno che si cela dietro alla civiltà dei consumi e del presunto “ben-essere”.

Bartolini parte dall’esempio negativo degli Stati Uniti, da sempre assunti a modello dal resto della civiltà occidentale: “Negli ultimi trentacinque anni, l’America è stata protagonista di una vigorosa crescita economica. Ma mentre il loro paese somigliava sempre più alla terra promessa dell’opulenza consumistica, gli americani si sentivano sempre peggio. Si dichiaravano meno felici e sperimentavano il dilagare di un’epidemia di malattie mentali. Perché questa carestia di benessere nel bel mezzo dell’abbondanza economica?” 

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Qualcosa, dunque, non funziona. La crisi sociale e l’abbondanza economica sono strettamente correlate, specialmente quando i dati sulla “misurazione della felicità” ci indicano che le nazioni più felici sono da ricercarsi fra quelle più povere e con il più basso tasso di “Pil” e sviluppo.

L’AMERICA E IL DECLINO DELLE RELAZIONI: un esempio da non seguire. 

Secondo l’approccio  NEG ( Negative Endogenous Growthcrescita endogena negativa ) crisi sociale e dinamismo economico sono strettamente collegati. I dati sugli U.S.A nel periodo 1975-2004 mostrano che l’aumento del reddito pro capite è stato più che compensato da diversi fattori negativi: il principale è il declino delle relazioni, con un sostanziale aumento della solitudine, delle difficoltà comunicative, della paura, del senso di isolamento, della diffidenza, dell’instabilità delle famiglie così come delle fratture generazionali , della solidarietà e dell’onestà, della partecipazione sociale e civica con conseguente peggioramento del clima sociale.

Gli americani cercano nel lavoro e nella maggior ricchezza materiale una compensazione al peggioramento delle loro condizioni relazionali. Ma a loro volta il tempo e le energie dedicati al lavoro vengono sottratti alle relazioni e quindi le persone che lavorano molto tendono ad avere relazioni peggiori” ( Bartolini, “Manifesto per la felicità” pag.17) 

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L’America è dunque l’esempio da non seguire, persa in un circolo vizioso in cui la cultura del consumo sembra aver completamente rimpiazzato ogni altro valore. Adottando i valori consumisti ( elevata priorità ad obbiettivi quali denaro, beni di consumo, successo ecc. ) l’individuo sembra via via attribuire sempre meno importanza ed attenzione agli affetti, alle relazioni in generale o ai comportamenti pro-sociali. Uno dei risultati più allarmanti di questo “trend” culturale è la particolare tendenza alla “reificazione” ( objectification ) dell’altro, ovvero il considerare gli altri individui come meri oggetti. La reificazione infatti sembra incarnarsi nella bassa generosità, capacità cooperativa , genuinità ( non strumentalità) ed elevati cinismo e sfiducia con cui gli individui consumisti fondano i loro rapporti.

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QUALI VIE D’USCITA?

La posizione di Bartolini  strizza più volte l’occhio a quella già riproposta da altri autorevoli  sociologi e filosofi quali Z. Bauman e S. Latouche rivendicando , con forza, la necessità di un cambiamento radicale e una vera e propria inversione di rotta.

Scagliandosi contro i miopi e ipocriti detrattori della “decrescita felice”, asserragliati  in un immobilismo nichilista, lo studioso ci mostra come una via d’uscita sia effettivamente possibile partendo da un dato di fatto di natura squisitamente antropologica: il senso della possibilità”.

“Gli esseri umani hanno due capacità molto spiccate rispetto agli altri animali: la capacità di adattamento individuale a un dato ambiente ( incluso quello economico e sociale) e la capacità di cambiare l’ambiente adattandolo alle proprie esigenze. Renato Palma definisce questa seconda capacità come senso della possibilità . Esso è l’impulso a provare inteso come base per migliorare l’esperienza e i frutti del lavoro, cominciando con il cibo. Per gli essere umani il possibile precede il reale. Il cervello umano ha inventato la capacità di progettare cambiamenti, cioè l’alternativa. Il senso della possibilità è alla base del nostro successo evolutivo perché ci ha resi capaci di adattare l’ambiente alle nostre necessità. Ci ha reso possibile inventare tecnologie, istituzioni, regole, ambienti sociali e culture che hanno lo scopo di migliorare la nostra vita. Ci ha resi capaci di progettare esperienze finalizzate al raggiungimento di condizioni di vita più facili e godibili. Questa è la nostra peculiarità biologica principale. Esistono altre specie che sono molto adattabili, ad esempio i topi e gli scarafaggi, ma nessuna dotata di senso della possibilità. Le istituzioni formative principali, la famiglia e la scuola, privilegiano però sistematicamente la capacità di adattamento individuale, assumendo l’ambiente economico e sociale come un dato. E scoraggiano il senso della possibilità, la capacità di adattare tale ambiente considerandolo invece quale esso è, cioè un prodotto umano. Altre istituzioni formative, come i media, si occupano invece di confinare il senso della possibilità nella sfera del possesso” ( “Manifesto per la felicità” pag. 31-32).

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La cultura occidentale, dunque, è divenuta depressa e decadente giacché sperimenta in sé un senso d’impossibilità ad indirizzare le cose verso un miglioramento che, secondo certe leggi di natura, sarebbe del tutto possibile. “L’ambiente economico e sociale è un prodotto umano e come tale può essere orientato verso il benessere”.

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Partendo da questa tesi il libro suggerisce una serie di trasformazioni e miglioramenti audaci, radicali  ma  applicabili,  volti ad arrestare il dilagare del malessere e dell’infelicità sociale, ricercando le cause del disagio  con l’utilizzo di strumenti antropologici e statistici che ben s’affiancano a quelli di matrice umanistica e filosofica. L’idea principale suggerita da Bartolini è quella di riportare l’essere umano , con i suoi reali bisogni primari,  al centro del dibattito su sviluppo e ben-essere, ridimensionando – talvolta in maniera drastica  ma necessaria – le sovrastrutture culturali esistenti. Le principali istituzioni sociali ( scuola, media, sanità, lavoro ) così come i luoghi stessi del vivere quotidiano ( città, spazi pubblici ecc.) vengono ripensati in un’ottica nuova, mirata al soddisfacimento di quei bisogni avvelenati e frustrati  dai “falsi valori” consumisti. Non più la società del “ben-avere”, incentrata ciecamente sul “lavoro per il lavoro”, il possesso e il consumo compulsivo di beni futili, ma una società in cui un nuovo ed illuminato “ben-essere” miri a “riumanizzare” il tessuto di relazioni fra ogni singola esistenza.

I limiti ignorati e il fallimento dell’idea di progresso

La condizione umana è inscritta dentro dei limiti. La nostra intelligenza ci consente di superare una grande varietà di ostacoli ma non ci autorizza a fare tutto nè a conoscere tutto. La scienza e la tecnologia, pur avanzate che siano, non ci permettono di travalicare limiti che sono insiti nella natura umana e la finitezza del pianeta, le cui risorse (spesso lo dimentichiamo) non sono illimitate, ci impone di sottostare ai dati fisici, biologici e geologici. L’ignoranza della conoscenza dei limiti è alla base dell’attuale triplice crisi (economica, sociale ed ambientale).

Scrive Serge Latouche nel suo ultimo saggio “Limite” (2012, Bollati Boringhieri): “I limiti economici chiaramente sono strettamente correlati con i limiti ecologici. Se l’ecosistema esplode, è proprio perchè l’economia della crescita è fondata sull’illimitatezza. Tuttavia, questo “sempre di più” su cui si basano il sistema capitalistico e la società dei consumi non avrebbe potuto affermarsi se la scienza e la tecnica non avessero creato mezzi inauditi di sfruttamento e di distruzione della natura e non avessero fatto intravedere la possibilità di una potenza infinita”.

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I nostri nonni contadini, invece, erano ben consapevoli dell’ esistenza di limiti, poichè nella civiltà preindustriale non si tentava di superarli, bensì si viveva in armonia con essi, la sobrietà e la parsimonia erano valori in quanto permettevano di mantenere tale armonia. Al contrario, fa parte della cultura del progresso pensare che si possano superare limiti di qualsiasi genere: inquinare l’acqua perchè ce ne sarà di nuova pulita, uccidere animali e abbattere alberi perchè rinasceranno, e se questo non è possibile oggi lo sarà in futuro grazie a nuove scoperte scientifiche o, perchè no, alla colonizzazione di nuovi pianeti da sfruttare. La società dei consumi ha dunque elevato l’eccesso e la mancanza di prudenza a valore assoluto. Le catastrofi tecnologiche – da Chernobyl ai Concorde che cadono ai megaponti che crollano – i rischi ambientali e le minacce derivanti dalla chimica e dalla biotecnologia, i crack economici generati dall’anarchia del libero mercato finanziario, l’inquinamento dei suoli, dell’acqua e dell’aria, l’effetto serra sono tutti prodotti globali di azioni che hanno sfidato una qualsivoglia prudenza, sotto il segno di una razionalità moderna e calcolatrice alla ricerca del massimo profitto. Sono questi i tratti salienti di quella che il sociologo tedesco Ulrick Beck chiamò già negli anni ’80 “società del rischio”, una società globalizzata in cui le persone ogni giorno si trovano ad affrontare i rischi prodotti dalla stessa modernità, che travalicano i confini nazionali e di classe.

In conclusione è chiaro che la certezza che più di altre crolla è quella affidata al “progresso”: questo veniva definito come una freccia, la freccia lineare del tempo orientata verso un avvenire radioso e quest’avvenire si definiva soprattutto in base alle certezze della scienza e della tecnica. Oggi evidentemente le cose non stanno più così, se mai in effetti lo sono state. L’idea di progresso lineare, inarrestabile ha ormai perso peso fino ad annullarsi. E qui risuonano le parole attualissime di Adorno: “Si potrebbe dunque asserire che il progresso si attua veramente là dove finisce”. La nuova idea di progresso dovrà dunque obbligarci alla prudenza, alla scelta selettiva, ad un esame minuzioso delle possibili conseguenze delle nostri azioni. La “ragione”, quella baconiana, moderna, scientifica e tecnologica dovrà necessariamente lasciare il posto alla “ragionevolezza”.