L’Europa ai piedi di Angie

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Terzo mandato e maggioranza assoluta sfiorata. Le elezioni tedesche del 22 settembre consegnano ad Angela Merkel una vittoria senza precedenti, che tuttavia non le permetterà di governare da sola. I liberali, alleati storici della Cdu-Csu, sono infatti rimasti fuori dal Parlamento e quindi la “cancelliera di ferro” sarà costretta alla “grosse koalition” con i socialdemocratici di Peer Steinbruek, usciti sconfitti seppur con un +4% rispetto alla tornata elettorale del 2009. La sconfitta della Spd, apparsa più che mai debole e senza idee,  dimostra come in Germania non esistano linee politiche alternative a quelle intraprese in questi anni dalla Merkel e difficilmente la grande coalizione alle porte riuscirà a indurre un qualche scostamento dalla strategia politica, economica e finanziaria condotta finora dalla Germania. Non dimentichiamo infatti che socialdemocratici e verdi, pur contestando i piani di austerity della cancelliera su alcuni dettagli, in Parlamento hanno sempre votato con lei sulle decisioni più importanti.

La maggioranza dei tedeschi dunque non accetta alcun cambiamento di rilievo in rapporto all’attuale politica europea del loro governo, respingendo  qualsiasi forma di meccanismo che implichi di farsi carico o di mettere in comune i debiti contratti dagli altri paesi (ovvero gli eurobond, un meccanismo comune di gestione della crisi bancaria e così via). Il cammino verso una maggiore integrazione appare più che mai sbarrata: le elezioni hanno dimostrato ancora una volta come per la Germania “più Europa” significa “maggiore controllo” sugli altri stati. Nessuna riforma dei trattati per collocare l’UE sulla via del federalismo e dell’unione politica, prospettiva che appare, con la nuova schiacciante vittoria di Frau Merkel, più che mai utopistica e remota.  

Probabilmente la coalizione che si appresta a governare la Germania farà il minimo necessario per evitare ad ogni crisi una rottura immediata dell’euro, prolungando una già pietosa agonia di un’ Europa senza anima. Niente di più. Vedremo quindi nuovi pacchetti di aiuti ai paesi più deboli, senza quella ristrutturazione del debito dei paesi del Sud, che secondo economisti quali Wolfgang Munchau del Financial Times, sarebbe indispensabile per risolvere veramente la crisi. 

In Grecia, come era prevedibile, non si fanno certo i salti di gioia per l’annunciata vittoria della Merkel,  il settimanale greco To Vima scrive sul suo sito:

“i tedeschi hanno detto un grande sì alla sovranità del loro paese in Europa, una sovranità costruita sulle rovine del sud di ciò che resta del vecchio continente “unito”. Era evidente e prevedibile: con la sua politica sulla crisi del debito, Angela Merkel ha forse trascinato gran parte dell’Europa verso la catastrofe, ma ha offerto ai tedeschi la possibilità di mangiarsi l’Europa in un sol boccone. […] Ancora una volta, ad Atene crollano le speranze. Merkel ha già fatto capire, fin dal primo momento, che la pressione sulla Grecia non diminuirà”.

Insomma, come sottolinea il sociologo tedesco Ulrick Beck, Angela Merkel sta mettendo in pratica un nuovo stile di potere politico, il “merkiavellismo”. «È meglio essere amato che temuto, o ’l converso? », chiedeva Machiavelli nel Principe. E rispondeva «che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma, perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua».

“Merkiavelli – prosegue Beck – sta applicando questo principio in modo nuovo e selettivo. All’estero dev’essere temuta, in casa amata (forse perché ha insegnato ai Paesi stranieri a temerla). Neoliberismo brutale per il mondo esterno, concertazione con una spruzzata di socialdemocrazia in casa: questa è la formula di successo che ha sistematicamente consentito a Merkiavelli di espandere il suo potere e quello della Germania”.

Ma a costi enormi per l’ Unione Europea. O per quel che ne rimane.

 

RECENSIONI: Stefano Bartolini “Manifesto per la felicità”: Società del ben-avere V.S Società del ben-essere.

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“ Molti psicologi e psichiatri rifiutano l’idea che la società nel suo insieme potrebbe essere malata. Assumono che il problema della salute mentale in una società è solo quello degli individui “inadeguati” e non quello di una possibile inadeguatezza della cultura stessa” .

(Erich Fromm)

Mai citazione fu più azzeccata per l’incipit del  libro che proponiamo alla vostra attenzione,  di ritorno dalla lunga pausa estiva.

Stefano Bartolini è docente di economia politica e sociale presso la facoltà di economia “Richard M. Goodwin” dell’Università di Siena e ha pubblicato numerosi saggi e articoli sulle più prestigiose riviste internazionali. Fin dalle prime pagine notiamo  una capacità di esposizione chiara, semplice e avvincente. Con un linguaggio scevro da tecnicismi anche il lettore digiuno di economia e sociologia può addentrarsi , senza troppe difficoltà, negli assunti principali di questo saggio.

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La nostra società è profondamente malata poiché plasmata su assiomi culturali divenuti ormai bulimici e, nella maggioranza dei casi, errati. Le idee classiche di “sviluppo”, “crescita”, “consumo” e “Pil” , fino a questi anni seguite ciecamente, alla stregua di dogmi inviolabili, dall’establishment economico finanziario mondiale, hanno proiettato l’essere umano verso una corsa sfrenata alla produzione e accumulo di ricchezze, verso un’idea di lavoro alienante, drammaticamente distante da quelli che sono i nostri reali e sostanziali bisogni. I risultati di questa drammatica scelta sono sotto gli occhi di tutti, ogni giorno: aumento delle patologie depressive, alcolismo, consumo di droghe, malessere sociale, violenza , infelicità diffusa, crollo delle relazioni.  Negli ultimi anni la possibilità di misurare in modo scientifico ed affidabile il tasso di felicità di una nazione ha svelato il grande inganno che si cela dietro alla civiltà dei consumi e del presunto “ben-essere”.

Bartolini parte dall’esempio negativo degli Stati Uniti, da sempre assunti a modello dal resto della civiltà occidentale: “Negli ultimi trentacinque anni, l’America è stata protagonista di una vigorosa crescita economica. Ma mentre il loro paese somigliava sempre più alla terra promessa dell’opulenza consumistica, gli americani si sentivano sempre peggio. Si dichiaravano meno felici e sperimentavano il dilagare di un’epidemia di malattie mentali. Perché questa carestia di benessere nel bel mezzo dell’abbondanza economica?” 

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Qualcosa, dunque, non funziona. La crisi sociale e l’abbondanza economica sono strettamente correlate, specialmente quando i dati sulla “misurazione della felicità” ci indicano che le nazioni più felici sono da ricercarsi fra quelle più povere e con il più basso tasso di “Pil” e sviluppo.

L’AMERICA E IL DECLINO DELLE RELAZIONI: un esempio da non seguire. 

Secondo l’approccio  NEG ( Negative Endogenous Growthcrescita endogena negativa ) crisi sociale e dinamismo economico sono strettamente collegati. I dati sugli U.S.A nel periodo 1975-2004 mostrano che l’aumento del reddito pro capite è stato più che compensato da diversi fattori negativi: il principale è il declino delle relazioni, con un sostanziale aumento della solitudine, delle difficoltà comunicative, della paura, del senso di isolamento, della diffidenza, dell’instabilità delle famiglie così come delle fratture generazionali , della solidarietà e dell’onestà, della partecipazione sociale e civica con conseguente peggioramento del clima sociale.

Gli americani cercano nel lavoro e nella maggior ricchezza materiale una compensazione al peggioramento delle loro condizioni relazionali. Ma a loro volta il tempo e le energie dedicati al lavoro vengono sottratti alle relazioni e quindi le persone che lavorano molto tendono ad avere relazioni peggiori” ( Bartolini, “Manifesto per la felicità” pag.17) 

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L’America è dunque l’esempio da non seguire, persa in un circolo vizioso in cui la cultura del consumo sembra aver completamente rimpiazzato ogni altro valore. Adottando i valori consumisti ( elevata priorità ad obbiettivi quali denaro, beni di consumo, successo ecc. ) l’individuo sembra via via attribuire sempre meno importanza ed attenzione agli affetti, alle relazioni in generale o ai comportamenti pro-sociali. Uno dei risultati più allarmanti di questo “trend” culturale è la particolare tendenza alla “reificazione” ( objectification ) dell’altro, ovvero il considerare gli altri individui come meri oggetti. La reificazione infatti sembra incarnarsi nella bassa generosità, capacità cooperativa , genuinità ( non strumentalità) ed elevati cinismo e sfiducia con cui gli individui consumisti fondano i loro rapporti.

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QUALI VIE D’USCITA?

La posizione di Bartolini  strizza più volte l’occhio a quella già riproposta da altri autorevoli  sociologi e filosofi quali Z. Bauman e S. Latouche rivendicando , con forza, la necessità di un cambiamento radicale e una vera e propria inversione di rotta.

Scagliandosi contro i miopi e ipocriti detrattori della “decrescita felice”, asserragliati  in un immobilismo nichilista, lo studioso ci mostra come una via d’uscita sia effettivamente possibile partendo da un dato di fatto di natura squisitamente antropologica: il senso della possibilità”.

“Gli esseri umani hanno due capacità molto spiccate rispetto agli altri animali: la capacità di adattamento individuale a un dato ambiente ( incluso quello economico e sociale) e la capacità di cambiare l’ambiente adattandolo alle proprie esigenze. Renato Palma definisce questa seconda capacità come senso della possibilità . Esso è l’impulso a provare inteso come base per migliorare l’esperienza e i frutti del lavoro, cominciando con il cibo. Per gli essere umani il possibile precede il reale. Il cervello umano ha inventato la capacità di progettare cambiamenti, cioè l’alternativa. Il senso della possibilità è alla base del nostro successo evolutivo perché ci ha resi capaci di adattare l’ambiente alle nostre necessità. Ci ha reso possibile inventare tecnologie, istituzioni, regole, ambienti sociali e culture che hanno lo scopo di migliorare la nostra vita. Ci ha resi capaci di progettare esperienze finalizzate al raggiungimento di condizioni di vita più facili e godibili. Questa è la nostra peculiarità biologica principale. Esistono altre specie che sono molto adattabili, ad esempio i topi e gli scarafaggi, ma nessuna dotata di senso della possibilità. Le istituzioni formative principali, la famiglia e la scuola, privilegiano però sistematicamente la capacità di adattamento individuale, assumendo l’ambiente economico e sociale come un dato. E scoraggiano il senso della possibilità, la capacità di adattare tale ambiente considerandolo invece quale esso è, cioè un prodotto umano. Altre istituzioni formative, come i media, si occupano invece di confinare il senso della possibilità nella sfera del possesso” ( “Manifesto per la felicità” pag. 31-32).

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La cultura occidentale, dunque, è divenuta depressa e decadente giacché sperimenta in sé un senso d’impossibilità ad indirizzare le cose verso un miglioramento che, secondo certe leggi di natura, sarebbe del tutto possibile. “L’ambiente economico e sociale è un prodotto umano e come tale può essere orientato verso il benessere”.

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Partendo da questa tesi il libro suggerisce una serie di trasformazioni e miglioramenti audaci, radicali  ma  applicabili,  volti ad arrestare il dilagare del malessere e dell’infelicità sociale, ricercando le cause del disagio  con l’utilizzo di strumenti antropologici e statistici che ben s’affiancano a quelli di matrice umanistica e filosofica. L’idea principale suggerita da Bartolini è quella di riportare l’essere umano , con i suoi reali bisogni primari,  al centro del dibattito su sviluppo e ben-essere, ridimensionando – talvolta in maniera drastica  ma necessaria – le sovrastrutture culturali esistenti. Le principali istituzioni sociali ( scuola, media, sanità, lavoro ) così come i luoghi stessi del vivere quotidiano ( città, spazi pubblici ecc.) vengono ripensati in un’ottica nuova, mirata al soddisfacimento di quei bisogni avvelenati e frustrati  dai “falsi valori” consumisti. Non più la società del “ben-avere”, incentrata ciecamente sul “lavoro per il lavoro”, il possesso e il consumo compulsivo di beni futili, ma una società in cui un nuovo ed illuminato “ben-essere” miri a “riumanizzare” il tessuto di relazioni fra ogni singola esistenza.

I limiti ignorati e il fallimento dell’idea di progresso

La condizione umana è inscritta dentro dei limiti. La nostra intelligenza ci consente di superare una grande varietà di ostacoli ma non ci autorizza a fare tutto nè a conoscere tutto. La scienza e la tecnologia, pur avanzate che siano, non ci permettono di travalicare limiti che sono insiti nella natura umana e la finitezza del pianeta, le cui risorse (spesso lo dimentichiamo) non sono illimitate, ci impone di sottostare ai dati fisici, biologici e geologici. L’ignoranza della conoscenza dei limiti è alla base dell’attuale triplice crisi (economica, sociale ed ambientale).

Scrive Serge Latouche nel suo ultimo saggio “Limite” (2012, Bollati Boringhieri): “I limiti economici chiaramente sono strettamente correlati con i limiti ecologici. Se l’ecosistema esplode, è proprio perchè l’economia della crescita è fondata sull’illimitatezza. Tuttavia, questo “sempre di più” su cui si basano il sistema capitalistico e la società dei consumi non avrebbe potuto affermarsi se la scienza e la tecnica non avessero creato mezzi inauditi di sfruttamento e di distruzione della natura e non avessero fatto intravedere la possibilità di una potenza infinita”.

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I nostri nonni contadini, invece, erano ben consapevoli dell’ esistenza di limiti, poichè nella civiltà preindustriale non si tentava di superarli, bensì si viveva in armonia con essi, la sobrietà e la parsimonia erano valori in quanto permettevano di mantenere tale armonia. Al contrario, fa parte della cultura del progresso pensare che si possano superare limiti di qualsiasi genere: inquinare l’acqua perchè ce ne sarà di nuova pulita, uccidere animali e abbattere alberi perchè rinasceranno, e se questo non è possibile oggi lo sarà in futuro grazie a nuove scoperte scientifiche o, perchè no, alla colonizzazione di nuovi pianeti da sfruttare. La società dei consumi ha dunque elevato l’eccesso e la mancanza di prudenza a valore assoluto. Le catastrofi tecnologiche – da Chernobyl ai Concorde che cadono ai megaponti che crollano – i rischi ambientali e le minacce derivanti dalla chimica e dalla biotecnologia, i crack economici generati dall’anarchia del libero mercato finanziario, l’inquinamento dei suoli, dell’acqua e dell’aria, l’effetto serra sono tutti prodotti globali di azioni che hanno sfidato una qualsivoglia prudenza, sotto il segno di una razionalità moderna e calcolatrice alla ricerca del massimo profitto. Sono questi i tratti salienti di quella che il sociologo tedesco Ulrick Beck chiamò già negli anni ’80 “società del rischio”, una società globalizzata in cui le persone ogni giorno si trovano ad affrontare i rischi prodotti dalla stessa modernità, che travalicano i confini nazionali e di classe.

In conclusione è chiaro che la certezza che più di altre crolla è quella affidata al “progresso”: questo veniva definito come una freccia, la freccia lineare del tempo orientata verso un avvenire radioso e quest’avvenire si definiva soprattutto in base alle certezze della scienza e della tecnica. Oggi evidentemente le cose non stanno più così, se mai in effetti lo sono state. L’idea di progresso lineare, inarrestabile ha ormai perso peso fino ad annullarsi. E qui risuonano le parole attualissime di Adorno: “Si potrebbe dunque asserire che il progresso si attua veramente là dove finisce”. La nuova idea di progresso dovrà dunque obbligarci alla prudenza, alla scelta selettiva, ad un esame minuzioso delle possibili conseguenze delle nostri azioni. La “ragione”, quella baconiana, moderna, scientifica e tecnologica dovrà necessariamente lasciare il posto alla “ragionevolezza”.

DOXA:L’ANGOLO DELL’OPINIONISTA. LE FABBRICHE DEL DIVERTIMENTO DEI SABATI SERA ITALIANI.

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Ad Aspasia piace mettermi alla prova su tematiche verso cui nutro qualche preconcetto o irrefrenabile idiosincrasia. L’Opinionista è, da sempre, la carne da cannone delle redazioni giornalistiche, un po’ quello che  lava i panni sporchi, il netturbino delle coscienze alienate. Ebbene; questa settimana parleremo di una realtà cara alla stagione che stiamo vivendo: il divertimento del sabato sera.  Dato che trascorro i mesi estivi prevalentemente in Toscana non posso che riferirmi a ciò che offre la sua costa. Firenze, si sa , cede alla calura insopportabile con l’inizio della stagione balneare . Così cresce il desiderio di qualche spiaggia ,  scordiamo momentaneamente  le bellezze artistiche    e facciamo rotta verso la costa degli Etruschi e la Versilia. Parto da Firenze verso le otto e mezzo di sera, in macchina.  Il sole è ancora alto quando mi lascio alle spalle la cupola del Brunelleschi. L’aria condizionata è al massimo e succhia avidamente dal serbatoio i venti euro di benzina appena pompati alla stazione di servizio. Basteranno per andare e tornare , sempre che non si esageri con la velocità di punta e i sorpassi ,  più rari e controllati visto le continue imboscate degli autovelox disseminati fino al mare. Anche in radio si stanno preparando per la serata; la musica è sempre la solita, un commerciale  esausto interrotto da decine di spot pubblicitari.

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Non torno in Versilia da 3 anni. Il posto non mi è mai piaciuto. Dell’aria che si respirava negli anni ’60 e ‘70   non v’è più traccia da un pezzo. Adesso  La Capannina è diventata luogo di ritrovo per  giovani teenager borghesi: vengono tutti, o quasi,  da Milano, accompagnati  da famiglie più o meno facoltose.  Iniziano a bere verso le otto e mezzo aperitivi zuccherosi come caramelle, fumano qualche canna comprata dai soliti immigrati irregolari tunisini e poi si abbandonano fino all’alba alle mammelle della notte Toscana. Qualche settimana fa, proprio davanti alla Capannina, due gruppi si sono affrontati prima  a male parole , poi lanciandosi bicchieri e qualche bicicletta. Appartenevano tutti  a famiglie della Milano bene.

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Quello che mi colpisce dei sabati sera in Versilia è il loro carattere spiccatamente “nazionalpopolare”. Escluso il Forte ,con le sue sfilate di fuori serie e auto di lusso dei  neo milionari russi, le realtà che si succedano da Pietrasanta fino alla marina di Torre del Lago sono targate Zara e H&M. E’ il trionfo dello stereotipo democratico, del saldo di bassa stagione, dello sfoggio livellato e senza pretese. Tutti sono qui per  spendere poco, mangiare di merda e bere come dei lavandini. L’essenziale è fingere di divertirsi sempre un po’ al di sopra delle proprie possibilità. Alle undici e mezzo, sul viale Europa di Torre del Lago, l’odore di fritto si mescola  ai profumi più cheap delle innumerevoli  veline in erba  sfoggianti carnagioni ben cotte dal sole e sorrisi inebetiti dai primi drinks consumati troppo in fretta. Davanti alla distesa dei locali, alle auto in coda e  le insegne luminose mi tornano alla mente anni lontani. Un tempo, dove ora sorge il kitsch delle palme in plastica coronate da led luminosi, resisteva all’irreggimentazione neo-liberista il baluardo anarchico di una  sottocultura omosessuale oggi superata e rimpiazzata dai diktat  della lobby gay transnazionale. Prima degli anni 2000 solo i froci e le lesbiche  si filavano Torre del Lago. Di etero curiosi, giunti lì per caso, non se ne vedeva l’ombra. Nostalgia del vecchio e sano “ghetto”? Forse. Sicuramente ci si divertiva  di più , si conosceva più persone durante una singola serata e la musica non faceva  vomitare come adesso. Tutto aveva un che di improvvisato e arrangiato capace di metterti a tuo agio. Oggi, al contrario, si paga ovunque la forma senza il contenuto. Ai vecchi barretti  abusivi, un tempo sorti alla buona, la morale del divertimento industriale ha preferito l’apparenza pretenziosa di cocktail bar dove il solo drink bevibile – sempre si sia disposti ad attendere in fila le lentezze di un barman completamente incapace – è il gin tonic a 8 euro servito nel bicchiere di plastica: tanto ghiaccio e poco Bosford gin ( pessimo come sempre ). Persino l’animazione delle Drag Queen ha perduto le caratteristiche peculiari tipiche del suo genere; se una volta bastava il gioco di parole, il calembour , l’ammicco o la battuta brillante per trascinare  la folla danzante,  adesso il banale turpiloquio  inquina con le sue bassezze gratuite piste affollate da giovani e meno giovani il cui fine principale è quello di farsi  vagamente ammirare, giorni dopo,  negli  autoscatti narcisistici di un Iphone o in pose grottesche : disposti a tutto pur di farsi notare.  L’atmosfera che si respira non è così diversa dall’ultimo film di Sorrentino, “La Grande Bellezza”.  Un’aria triste, ostentata, priva di naturalezza e genuino svago.Immagine

No, non voglio passare da bacchettone annoiato,ne da snob eternamente scontento di ritrovarsi a contatto con la realtà del popolo e i suoi istinti più intestini;  dico soltanto che la Versilia e Torre del Lago hanno subito, in questi ultimi anni,  la stessa sorte riservata alle altre fabbriche del divertimento massivo italiota. Omologare, vendere, consumare e, se possibile, moralizzare  secondo i dettami più ipocriti dell’ethos piccolo borghese.

Su Il Tirreno di Viareggio di  una settimana fa ( quotidiano locale) leggo la notizia di un’iniziativa che non riesce a nascondere il paraculismo più sfacciato ; con il progetto “Guido con prudenza” parte l’iniziativa sulla sicurezza a cui aderiscono vari locali della costa. A tutti coloro che supereranno la prova dell’etilometro con un tasso di alcol pari a zero sarà regalato un biglietto per entrare gratis in una discoteca.

Verso le due e mezza, sui “bar mat”  si versa nei bicchieri anche l’impossibile. Le andature del popolo della notte si fanno più barcollanti; inizio a pensare che di fortunati vincitori e di ingressi omaggio se ne vedranno ben pochi. A dire la verità più mi trattengo fra la folla più mi tornano in mente alcune scene del capolavoro di Terry Gilliam “Paura e delirio a Las Vegas”, in particolare quelle del grottesco circo Bazooko.

Lo confesso: pur di sottrarmi definitivamente a questa fiera scintillante e patetica di frocetti sculettanti e sedicenti etero “curiosi” alla ricerca di qualche velata trasgressione ( il buio della vicina pineta, si sa, offre da anni l’anonimato per qualsiasi “nuova esperienza”) farei di tutto, anche ingoiarmi un acido con la stessa naturalezza con cui si stappa una lattina di birra. Purtroppo i tempi della psichedelia sono finiti e mi accontento con la fiaschetta del bourbon che ho, molto diligentemente, portato da casa. Alla fine realizzo con atroce amarezza che anch’io non sono poi così diverso dalle persone che mi circondano ed il fantasma severo di  Rimbaud mi sussurra alle orecchie le sue parole più dure: “La mia più grande paura è che la gente veda me come io vedo loro”. Ecco fatto: sono dentro un discreto bad trip ed il colmo è che ho solo bevuto, male e poco. Inizio a farmi strada tra i coaguli della folla non potendo evitare spinte e pestoni tirati a casaccio. Le urla e risate schiamazzanti di una biondina con l’acqua minerale nel cervello attirano la mia attenzione. La guardo:senza trucco avrà sì e no 17 anni ;  se ne sta a ballare contornata dai suoi amichetti gay, quasi tutti suoi coetanei,  che la toccano e la palpano con gesti che non resusciterebbero l’erotismo  di una mummia egizia. Nei suoi occhi l’alcol ha piantato il suo vessillo e per un attimo riesco a sfiorare un sentimento di pietà. La maggioranza dei giovani di oggi sono divenuti completamente   refrattari al  reale divertimento; il sabato sera è  una pedana su cui innalzare la  visibilità virtuale concessa loro dai social network o da altre cazzate simili, sostituti privilegiati della vita vera.  Non vivono nel presente ma nell’immediato futuro del post che pubblicheranno, di lì a poco, sul loro profilo social. La virtualità cibernetica ha sostituito la vita reale vissuta nel presente, attimo dopo attimo.

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(sequenza del film di Terry Gilliam “Paura e delirio a Las Vegas” 1998 ) Alcuni dei miei pochissimi lettori e lettrici mi rimprovereranno, forse, di sbraitare troppo riguardo a questo argomento. Forse la mia è una battaglia persa, come quella  del cavaliere della Mancia  con i suoi mulini a vento, eppure uno dei nodi della crisi umana che  sta investendo tutti è proprio la sostituzione diabolica di “realtà” con “realtà artefatta”. Nonostante questo, le fabbriche del divertimento continueranno a pompare alcol e musica usa e getta per tutta la stagione e in Versilia, come su tutta la costa toscana, migliaia di giovani consumeranno l’estate senza accorgersene, fra una bevuta e l’altra, sorridenti come branchi di manichini tutti uguali, ubriachi e, in fondo, sempre più tristi.